Mu


Due sopracciglia in disordine
una piccola cicatrice d'infanzia.

La linea dell'orizzonte sulla sabbia
e quattro gocce di tè verde.

Così si scrive il vuoto su carta.

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martedì 29 gennaio 2008

Apocrifia zen: il progetto


Koan apocrifi, haiku barbari e altra poesia zen sono le tre sezioni in cui si articola il progetto «apocrifia zen» a cui sto lavorando da circa due anni.


La letteratura zen, sia essa quella tradizionale dei koan o quella dallo zen fortemente influenzata come la scrittura degli haiku, ha certamente segnato un passo nel mio percorrere la via della poesia, così come nella mia ricerca interiore e nel mio atteggiamento verso tutto il resto. Scrivere dei testi «apocrifi» da affiancare a quelli originali nella mia lettura interiore, è stato per me un riflesso automatico, un’urgenza personale; pubblicandoli qui spero possano, non dico aiutare qualcun altro nella sua ricerca, ma forse avvicinarlo a questo universo senza senso che è lo zen, sapendo quanto esso abbia da dare, e soprattuto da prendere, a ciascuno di noi.

Nasce così il progetto «apocrifia zen», sebbene la letteratura zen sia tutto meno che scrittura sacra o canone da sovvertire: tutto il contrario... Il titolo sarà quindi il risultato di una certa autoironia, visibile anche nei testi, derivata, appunto, dalla consapevolezza della totale assurdità di una pretesa apocrifia zen, e di conseguenza di un suo diritto ad essere.

Non sento in modo particolare l’esigenza di aggiungere qualcosa a proposito della letteratura zen: il lettore ignorante sarà sempre un ospite prezioso e benvenuto, che mi guarderò bene dal trattare con didascalismo paternalista; al lettore che si è già imbattuto, invece, - fortunato - nelle vie sghembe dello zen, sarà men che mai necessario ricordare di dimenticare. Ho aggiunto e aggiungerò - è vero - qualcosa a proposito delle singole sezioni - koan, haiku e altra poesia - ma non è nulla che io ritenga indispensabilmente introduttivo o propedeutico alla lettura. Puro svuotamento.

Da un po’ di tempo, elemento fondamentale del progetto è diventata la collaborazione con Giuseppe Rizzo, musicista di Palermo e caro amico. Lo spunto è nato in modo del tutto casuale e spontaneo con la lettura di quello che allora era un pezzo singolo, e che ora è diventato il primo caso dei koan apocrifi, postato qui sul blog due giorni fa. Lui ne tirò fuori un pezzo che ha chiamato Steel flower e che vi invito ad ascoltare sulla sua homepage. A questo episodio estemporaneo di ispirazione non è seguito nulla per molto tempo, fino a quando non abbiamo pensato che sarebbe stato interessante, in quest’epoca di multimedialità - di intreccio delle vie, come dico io -, affiancare della musica ai testi, rinunciando però a stabilire dei collegamenti univoci tra un testo ben preciso e una traccia musicale ben precisa, consapevoli che l’ispirazione non si può indurre, e che la trappola del ‘volere illustrare’ è sempre in agguato.

Quale collocazione avrà il prodotto finale di questo progetto non è ancora chiaro, ma certo ci incuriosisce vedere il suo riscontro in rete.

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lunedì 28 gennaio 2008

Koan apocrifi


I koan apocrifi che da ieri sono cominciati ad apparire sul blog, costituiscono insieme agli haiku barbari un’altra parte del progetto «apocrifia zen» a cui sto lavorando attualmente. Spiegherò meglio di cosa si tratta nel prossimo post, qui invece spenderò brevemente qualche parola su questi koan apocrifi.


Nella tradizione zen il termine koan indica un particolare problema, attraverso il cui studio e lunga meditazione è possibile raggiungere l’illuminazione. In pratica, si tratta di un aneddoto, di una lezione, spesso di un breve dialogo tra maestro e allievo; esso si presenta come un enigma inesplicabile, che non risponde alle categorie logiche, alla consequenzialità o al principio di non-contraddizione, in quanto la verità dello zen si può intuire, afferrare, solo al di là - o forse dovrebbe dirsi meglio al di qua - delle categorie dell'intelletto.
Le raccolte di questi ‘casi’ furono compilate da maestri e studiosi del buddhismo ch’an (l’antenato cinese dello zen), i quali erano soliti aggiungervi in coda alcuni versi (assolutamente non lirici) e a volte persino un commento al caso, non di rado ancora più oscuro del caso stesso. Rispetto a questa forma, ho mantenuto la presenza della poesia a seguito del koan, rinunciando invece ad apporvi anche il commento, non solo per ragioni di leggerezza.

Ora, prima di dimenticare tutto quello che avete letto sopra, ricordate che il koan può aiutare solo chi coltiva fino alla fine il «grande dubbio» da esso provocato.

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domenica 27 gennaio 2008

Koan apocrifi: Caso I


Due monaci raccolgono un fiore e lo offrono al Buddha.
Il primo dice: - È bello.
Il secondo dice: - Sta morendo.


Poesia


Senza vedere i volti dei due monaci
dimmi ora se sorridono oppure no.
Davanti allo splendore, di fronte alla morte
come si resta inermi?

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mercoledì 23 gennaio 2008

Inverno [III]


Ho atteso un'ora e mezza alle poste
in coda non sono invecchiato
neppure un minuto.

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domenica 20 gennaio 2008

Inverno [II]


Sera di pioggia
i manici d'ombrello
restano asciutti.

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giovedì 17 gennaio 2008

Haiku barbari


Questo postato qui sotto è il primo di molti haiku barbari che leggerete in questo blog.
Li chiamo «barbari» (se c'è un dio della poesia, spero mi perdonerà il richiamo carducciano) perché non rispettano la metrica giapponese tradizionale di 5-7-5 sillabe per i tre versi, ma hanno invece una metrica libera, anche se tendenzialmente breve-lunga-breve.


La ragione di questo non rispetto della regola (comunque ormai rinnovata anche da altri - giapponesi, se è l'Auctoritas, che vi interessa) sta nel fatto che non ritengo di alcuna utilità seguire (pedissequamente poi, come certi fanatici subito posseduti dalla nuova moda) delle regole metriche prese di pari peso da un'altra lingua.
Seguire la regola del 5-7-5 perché «così è in giapponese» non m'interessa.
Seguirla perché si ritiene utile una forma fissa è già una scelta più interessante e ha il mio rispetto (anche se forse si potrebbe trovare una formula più congeniale all'italiano).
Io ho invece scelto di non seguirla affatto, ma di cercare un'affinità diversa con la tradizione di questo genere. L'affinità starebbe tutta nel modo di scrivere: l'haiku è innanzitutto una pratica di ricerca interiore - anche se in pochi sembrano ricordarlo - che mira alla sospensione del senso attribuito dal soggetto (intellettivo o emotivo che sia) attraverso una semplicità icastica estrema e disarmante, trovando nel precisissimo dettaglio della natura il contenitore vuoto del vuoto interiore ed esteriore. Si tratta insomma di una vera pratica di svuotamento, e per questo ho cercato di guardarmi dalla tentazione sempre occidentale di reintrodurre il senso attraverso quei mezzi che ben conosciamo: la metafora, il simbolo o anche il relativismo della moderna allegoria; (quel linguaggio retorico che il vero haiku congeda e giammai provoca). Ho sentito invece di poter maneggiare, sempre con cura, quegli strumenti, seppur sempre retorici, che si muovono però più nella direzione del significante, del 'segno vuoto': l'onomatopea, l'allitterazione, l'assonanza, e anche un'analogia, per così dire, 'larga'. Qui, ma come anche altrove, starà soprattutto al lettore non riempire nuovamente quanto già vuotato.

In generale è poi mantenuta una buona affinità tematica, se è vero che gli haiku barbari sono raggruppati per stagioni (ma non vi troverete regolarmente il kigo, il canonico riferimento alla stagione); mi interessa però dare spazio anche al mondo dell'uomo (che non sento necessariamente in contraddizione con quello della natura) e alla modernità, e dunque una parte di ispirazione proverrà dalla città, dalla metropoli moderna, soprattutto in una quinta sezione di haiku dal titolo «Fuori stagione».

Certo, la forma è il contenuto del vuoto, e si sa quanto sia importante nella ritualissima cultura giapponese intrisa di zen. Ma è inutile imitare ciò che non si è; io continuo ad essere un occidentale - un gaijin, direbbero loro - e se mi vesto di tutto punto da orientale sembro anche un po' ridicolo.

Mi scuso per la lunghezza del post, ma ritenevo importante questo chiarimento.
Per la brevità ci sono gli haiku.


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mercoledì 16 gennaio 2008

Inverno [I]


Inverno.
Si dimentica presto
il colore del giorno.

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mercoledì 9 gennaio 2008

Come a Ostenda


Scalciati dalle onde i palazzi
digradavano infine verso il mare
colore novembre.

Il vento schiantato sulle gote
lasciava in asso le giostre spente e un cane
depistato dalla burrasca dei giorni prima.

Ricordo che dal naso soffiasti allora
ogni marina schifezza
sradicata per la chioma esule
sulla spiaggia d'inverno insieme ai denti
persi dal mare.

L'ombreggiatura del bagnasciuga
aggiornava in tempo reale
i confini di una terra di nessuno.

Ne prendevano nota i gabbiani
appostati sui trampoli e le teste
incappucciate nelle ali.

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sabato 5 gennaio 2008

post-0 vuoto


E' così: pochi click ed ecco che il web si comprime, si stipa un altro po'. Pochi click ed ecco occupato un altro po' di vuoto telematico, di vuoto fotonico - buio pesto o abbaglio luminoso che sia. Ammassato, colmo, imbottito, farcito di altre parole, altre immagini, altri suoni. Mi chiedo quanto spazio abbia il web, dove finisca e dove non si interrompano l'un l'altro i suoi contenuti.

Tutti cercano uno spazio soprattutto per riempirlo di se stessi, io sento invece il bisogno di uno spazio vuoto, e però non può essere lo spazio di un infinito vago e astratto. Al contrario deve essere uno spazio preciso, concreto, definito. Definito da cosa? Da altre parole, chiaro, altre immagini, altri suoni; di un'altra concentrazione, però, un'altra densità, un altro peso specifico: non più contenuto, ma contenenti - parole vuote, quindi, ma definite, pronte a raccogliere da un lato e a lasciar cadere dall'altro.

Sciolto il ripieno del significato, la farcitura del senso, non resta che masticare il guscio vuoto. . .
«finché cade il dente».


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