In questi giorni, rileggendo i koan apocrifi, mi sono accorto di quanto sia importante il dialogo invisibile che si instaura tra le due parti del koan, il caso vero e proprio e la poesia seguente, in quanto esse si parlano da posizioni e momenti diversi rispetto all'esperienza decisiva dell'illuminazione. La prima fa infatti principalmente suo il punto di vista dell'allievo che è ancora alla ricerca, che pone le domande al maestro, e ancora non afferra l'inafferrabile, trovandosi al di qua dell'illuminazione; la seconda, invece, riflette il punto di vista del monaco che ha compilato la raccolta dei koan e che, dopo anni di intenso lavoro interiore, si trova ora al di là di essa. Così, come fossero essi stessi un allievo e il suo maestro, o, ancora meglio, come fosse lo stesso monaco a rivolgersi al sè stesso del passato, il caso e la poesia si mettono in comunicazione diretta, attraverso quel bianco di pagina che li separa. Cosa si dicono? Nulla naturalmente: il messaggio è vuoto. A contare è il contatto, l'essenza stessa della comunicazione.
Mu
Due sopracciglia in disordine
una piccola cicatrice d'infanzia.
La linea dell'orizzonte sulla sabbia
e quattro gocce di tè verde.
Così si scrive il vuoto su carta.
sabato 28 febbraio 2009
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