Mu


Due sopracciglia in disordine
una piccola cicatrice d'infanzia.

La linea dell'orizzonte sulla sabbia
e quattro gocce di tè verde.

Così si scrive il vuoto su carta.

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domenica 25 maggio 2008

Vivere o descrivere




Da alcuni giorni continuo a ripetermi a mente una questione: se la cosiddetta «arte» riproduce la natura, o più in generale la realtà, che bisogno abbiamo di essa? Attenzione: non mi sto occupando del caso «l’arte non riproduce la natura/realtà», che è una possibilità, magari anche più interessante. Quello che intendo, e che è intimamente legato al contenuto di questo blog, è cioè: se l’arte è «vuota» (in quanto si pretende priva del filtro del soggetto) perché non sarebbe ad essa preferibile un vuoto dell’arte?

Ok, più concretamente: se devo leggere un haiku (ad esempio l’ultimo postato) che mi ritrae un aspetto, pur preciso ed isolato, della natura o delle nostre città, non sarebbe meglio andarmi a fare una passeggiata nel bosco o in città (lasciando salva la proprietà dell’arte di farci viaggiare in posti in cui non potremmo altrimenti andare)?


Pensavo appunto agli haiku, o almeno a quelli di un certo tipo, quelli più puramente descrittivi (se pur così si possono definire senza rischio di mistificazione), che più appaiono ingiustificati ad esistere davanti la presenza viva della realtà.
In verità, nella mia mente, avevo davanti altre due immagini, sempre provenienti dalla cultura giapponese: il dipinto di Hokusai «iris e cavalletta» che vedete sopra, e la sequenza di un anime (non ricordo bene di quale, forse Evangelion) in cui l’ultima goccia d’acqua pende senza cadere dal rubinetto, evidentemente chiuso poco prima (e di immagini di anime e manga, me ne vengono facilmente in mente molte altre, visto che una delle loro qualità più affascinanti è il loro essere sempre così precisi nel rappresentare dettagli della realtà ai margini della narrazione).

Proprio quest’ultima immagine mi ha aiutato a un certo punto a capire una cosa fondamentale presente in questo tipo di arte che ho definito «vuota», una cosa che, essendo in realtà un’ovvia conseguenza dei discorsi che mi faccio sempre a questo proposito, dovevo avere finora trascurato: si tratta dell’attenzione e dell’interesse, da parte di chi scrive, disegna o fotografa, per l’oggetto rappresentato. Questa dedizione gratuita e istantaneamente totale, che è in definitiva amore purissimo, nel notare un dettaglio del tutto ordinario della realtà (non insignificante, bensì significante, nel senso cioè che è segno privo di significato) è qualcosa di cui possiamo godere proprio attraverso la lettura di quel tipo di haiku.

In questo caso, dell’autore non ci interesseranno più i suoi umori, le sue emozioni, le sue riflessioni, ma la piccola meraviglia che gli ha provocato quella particolare visione, e quindi l’attenzione dedicata a questa visione, la volontà di dargli uno spazio, piccolo, ma tutto suo. Non è dunque tanto l’oggetto della rappresentazione a costituire la ragione di esistere di questa arte (continuiamo a chiamarla così per comodità, cercando di dimenticare la solennità che la parola rievoca. Eh, è dura, lo so!), quanto la dedizione del suo osservatore, che ha cercato di riprodurla senza alterarla con altri residui di ego-soggettività che non siano la scelta del dettaglio e la prospettiva di osservazione.

Questo non ha nulla a che fare con la freddezza e l’ipocrisia del realismo. È il paradosso, magico e verissimo, dell’unione, o meglio dell’eclissi, del binomio soggetto-oggetto.

In conclusione potremmo dire che il soggetto, buttato fuori dalla porta, non rientra dalla finestra, ma resta a guardare dal buco della serratura, in silenzio.

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